Uno degli orti dell’associazione Nostrale a Quarto Oggiaro
Mica lo sapevano che funzionasse così, loro. I teenager del Bronx 
milanese, i monelli da baby gang tutti scooter e parolacce, quelli che 
sognano la sigaretta, il tatuaggio, e parlano da uomini navigati: come 
potevano saperlo? O se lo sapevano lo avevano dimenticato. Tanto
 che quando l’insalata è sbocciata dalla terra di Quarto Oggiaro, tra i 
palazzoni di cemento della periferia nord di Milano, ci sono rimasti di 
stucco. “E’ come al supermercato” hanno esclamato.
Come al supermercato, proprio così.
“All’inizio quasi non ci credevano. L’insalata che cresceva dal terreno per loro era come fosse finta. Abituati come sono a vederla solo tra gli scaffali del super o nelle confezioni plastificate” racconta Davide Ciccarese, 30 anni, laureato in scienze agricole.
Assieme a un piccolo gruppo (l’associazione “Nostrale”)
 di giovani milanesi, ex-studenti, precari e disoccupati, Davide si 
dedica a una passione che nell’era digitale suona come un ossimoro, ma 
che per lui e altri tre è ormai un lavoro a tempo pieno: gli orti 
urbani.
Quello di Quarto Oggiaro è un esempio: un enorme spiazzo coltivato in
 mezzo a tre palazzoni popolari, dove decine di famiglie residenti si 
riuniscono, seminano e si spartiscono il raccolto a gratis, risparmiando
 sul supermercato. Ma gli esempi abbondano in tutta Italia. Dalle 
orto-officine realizzate sempre da Nostrale in altre zone della
 periferia milanese, dove gli abitanti possono sperimentare 
gratuitamente tecniche innovative come l’orto rialzato “da tavola” (vedi
 foto), ai più classici orticelli spuntati dietro il palazzo della 
Regione Lazio, a Roma, in un campo che da progetto sarebbe dovuto 
diventare un parco pubblico.
Proprio lì, a due passi dall’ex ufficio di Franco Fiorito detto 
“Batman”, questo pezzo d’Italia da imitare è stato prima un deposito di 
automobili abbandonate, poi riqualificato da un gruppo di volontari 
riuniti nel “Coordinamento per gli orti urbani della Garbatella”: ora 
l’area, suddivisa in 15 orti, viene coltivata da altrettante famiglie a 
basso reddito. Più o meno come succede, scendendo il Belpaese, in un 
altro luogo-simbolo di degrado e rinascita: Scampia, periferia di 
Napoli. Dove all’ombra delle famigerate “vele” Legambiente gestisce tre 
orti ad uso di disabili, detenuti, giovani del quartiere. 
Insomma «chiunque abbia un disagio di tipo personale o economico» spiega
 Ciro Calabrese, responsabile del progetto,
«perché coltivar, prima che un modo di sopravvivere, è un divertimento, un’occasione per socializzare e fare comunità».
Insomma tante buone pratiche, e un sospetto. Che la crisi sia 
l’occasione per tornare tutti, se non proprio alla terra, almeno a 
modalità di consumo più naturali? E per chi non abbia a disposizione un 
orto, o non possa o non voglia rinunciare agli anacardi a gennaio, ai 
datteri di novembre e ad altre leccornie esotiche che gli orti urbani 
non possono offrire, c’è sempre il commercio equo-solidale. Non per 
niente il Fair-Trade italiano, rispettoso dell’ambiente, dei produttori e
 delle colture locali (siano di là del Mediterraneo o all’altro capo del
 mondo), ha segnato un +13,7% nel corso del 2012, raggiungendo quota 65 
milioni di euro venduti. In controtendenza con il calo generale dei 
consumi. E alla faccia della crisi che – sta a vedere – dopotutto 
potrebbe anche avere dei risvolti positivi.
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